La nostra storia
In continua evoluzione
Eravamo semplicemente alla ricerca di un oliveto, volevamo produrre olio d’oliva per noi e per i nostri amici secondo le nostre idee, selezionando gli ulivi, raccogliendo i frutti di ogni cultivar all’inizio dell’invaiatura, frangerli subito dopo la raccolta e confezionare l’olio appena separato dalla lignina previa una leggera filtrazione.
Questa ricerca ci ha portato a Suvereto, ultimo comune in provincia di Livorno prima della maremma grossetana, e lì abbiamo conosciuto un grande maestro della cucina toscana, Giancarlo Bini nel suo ristorante Ombrone o meglio nella sua “Enoliteca” dove per primo aveva selezionato una grande quantità di olii d’oliva mono-cultivar che proponeva ai clienti con una propria carta degli olii, quand’ancora l’olio era considerato un semplice e vile ingrediente per cucinare. Si capì da quell’incontro che la nostra idea aveva un senso e che quei terreni abbandonati sul crinale sopra Suvereto in località Belvedere potevano rappresentare la più bella sfida per realizzare il nostro progetto. Ed è qui che nasce la nostra storia.
Su quel crinale, guardando il mare in lontananza con l’Elba e Montecristo davanti agli occhi, con i profumi della macchia nell’aria e senza alcun segno di contaminazione antropica per quanto spaziava la vista, si ebbe la certezza che quel luogo, abbandonato da tutti per le difficoltà oggettive di sopravvivenza, sarebbe stato il luogo d’elezione per produrre un eccellente olio d’oliva.
Da l’aia del Merli, così era chiamata la parte più alta del crinale a cavallo fra il mare a sud e le colline metallifere a nord, scendendo nei due versanti, abbiamo recuperato alla macchia i terreni rimasti incolti dagli anni 50’ quando la meccanizzazione dell’agricoltura privilegiò zone più facili da lavorare all’impervie colline suveretane e gli abitanti del posto le abbandonarono.
Abbiamo liberato gli olivi, piantati nei secoli dai ‘Belvederini’ con tanta fatica, dalla macchia mediterranea, che con vigoria ed arroganza, li aveva imprigionati così come aveva preso il sopravvento su tutte le aree adibite alle necessarie culture per la loro sopravvivenza.
L’idea, il progetto, l’evoluzione e le persone.
Recuperare un territorio abbandonato, per motivi di non concorrenzialità secondo le regole della massima produttività al minor costo, attraverso metodi di coltivazione naturale con la loro lentezza e completezza, fecondando i terrenti con sovesci e microrganismi rispettando le fasi lunari e vegetative e poi aspettare con pazienza ed attenzione i risultati stagionali per valutare e sperimentare metodi e lavorazioni sempre più specifici per ottenere l’eccellenza.
Allora il vino.
La coltivazione della vite a Belvedere nel passato era relegata a qualche filare sul perimetro dei campetti coltivati a grano, quanto bastava per il fabbisogno familiare, e non sempre. La cultura del vino a Belvedere non si era sviluppata sia per la difficoltà nel realizzare impianti su queste colline scoscese che impedivano la meccanizzazione delle lavorazioni, sia per l’impegno necessario ed i relativi costi della manodopera, qualora si potesse trovare. Gli abitanti di Belvedere erano passati da circa 1000 alla fine dell’800 a una decina nel 2000 e pertanto non esistevano interessi specifici a valorizzare questo territorio.
Ma la biodiversità presente in questa parte di territorio, la mineralità del suolo, l’intensità della luce, il fresco delle notti estive ci hanno fatto immaginare la possibilità di sviluppare un prodotto sui generis, un vino che potesse esprimere l’appartenenza a questo territorio, con i suoi profumi, mineralità corpo ed eleganza e per questo abbiamo realizzato i primi vigneti, Sangiovese nel 2003, Cabernet Sauvignon e Franc l’anno successivo. I risultati ottenuti, in termini di qualità e caratteristiche dei primi vini, imbottigliati nel 2010, ci hanno incoraggiato a proseguire ed ampliare le vigne occupando tutti i terreni che è stato possibile recuperare alla selva, ai cinghiali ed alla tenacità della macchia che le circonda. La preparazione dei terreni per ospitare i vigneti è stata laboriosa e complessa causa la petrosità del luogo, ma la risposta alla fine è stata ed è sempre più appagante e generosa, abbiamo piantato dal 2011 al 2018 altri 5 ettari fra sangiovese, cabernet sauvignon e franc, vermentino ed aleatico dell’Elba in funzione dell’affinità dei vari cultivar al terreno che li ospita. Abbiamo recintato tutte le vigne per difenderle dall’irruenza dei cinghiali, abbiamo costruito una nuova cantina interrata e posizionata sopra le vigne dove il vino riposa e si affina in botti grandi ed anfore di terracotta in attesa dell’imbottigliamento rispettando cicli e fasi di trasformazione senza applicare processi forzati.
Ma un progetto nasce da un’idea e si perfeziona con le persone.
La storia dei Mandorli non nasce da una famiglia con origini agricole tramandata nel tempo, ma da una famiglia con un’attenzione costante verso il rispetto della terra e dei metodi di coltivazione di questa. Nasce da una sensibilità verso un tipo di agricoltura in generale che ha il compito di tutelare e salvaguardare il territorio, ma nasce anche da persone che si stupiscono ancora davanti alla vitalità e alla forza che la natura offre. Il nostro vino rappresenta un’espressione della terra, di quel preciso territorio con determinate caratteristiche, diventando un tramite tra la terra e l’uomo. Ogni persona che ha contribuito alla crescita de I Mandorli da Gigi, Andrea e poi Maddalena, Costanza, Adil ed anche il sottoscritto non sono stati e non saranno mai dei semplici operatori, ma degli artisti che in questa fucina agricola plasmano in continuazione la loro opera con il rispetto per la natura e la gioia di veder realizzata la loro opera d’arte.
Massimo Pasquetti